Oggi 22 aprile, per il 54° anno consecutivo, si celebra la “Giornata Mondiale della Terra”. La sua difesa dipende dalla ricerca, dalla tecnologia, ma anche dall’educazione e dalle abitudini quotidiane
di Paolo Caruso
Come ogni anno da 54 anni a questa parte, il 22 aprile si celebra la “Giornata Mondiale della Terra”, il più grande evento civico dedicato alla salvaguardia del pianeta che coinvolge miliardi di persone in tutto il globo. Un mondo sempre più minacciato da pressioni naturali, che spesso sono il risultato di attività antropiche.
Eventi meteo sempre più estremi, incremento della popolazione, indisponibilità di risorse naturali per tutti (in primis acqua e cibo), desertificazione, aumento della salinità delle acque, sono solo alcune delle criticità che ci stanno creando più di una preoccupazione e che necessitano di una strategia globale per la mitigazione dei loro effetti.
In questo contesto, il sorvegliato speciale della nostra epoca è diventato il suolo, soprattutto quello agricolo da sempre fonte di cibo ed energia, che sta palesando sintomi sempre più evidenti di usura e infertilità.
Anche l’etimologia del termine “Terra” restituisce il senso di unicità e la connessione con il “terreno” inteso come suolo agricolo. D’altra parte il sostantivo “Terra” nella lingua italiana è un’eccezione rispetto ai nomi degli altri pianeti: il suo significato e la sua radice, nelle lingue latine e neolatine, indicano non solo il pianeta, ma anche il terreno.
Ed è proprio il suolo il grande malato di quest’epoca: secondo la FAO, il 33% dei terreni è oggi degradato e affetto da salinizzazione, compattazione, acidificazione ed esaurimento dei nutrienti. Il responsabile maggiore di questo stato dell’arte è stato individuato nell’attività agricola prevalente dal dopoguerra ad oggi, ovvero quella “industriale”. Un’attività che ha unico e imperativo obiettivo: la ricerca dei più elevati livelli produttivi, per il cui conseguimento non vengono risparmiati massicci input di derivazione chimica (fitofarmaci, fertilizzanti, etc.), tralasciando frequentemente e disinvoltamente i più elementari principi di salvaguardia del suolo, dell’ambiente e della salute.
Queste pratiche colturali, ormai divenute ordinarie, stanno compromettendo l’equilibrio generale dell’ecosistema, con conseguenze nefaste per il pianeta e per la nostra salute.
Allora come cercare di limitare i danni e invertire la rotta? La dicotomia dell’attività agricola attuale, divisa tra chi si adopera per coniugare i tre pilastri della sostenibilità (sociale, economico e ambientale) e chi si dedica solo ed esclusivamente del profitto, è il risultato finale di una diversa concezione anche filosofica, su ciò che siamo e su cosa vogliamo lasciare a chi ci succederà.
Uno dei rimedi possibili e promettenti riguarda l’adozione di una serie di pratiche eco-compatibili di gestione agricola, che possono costituire una solida base per un auspicabile cambio di rotta se accoppiati ad una nuova consapevolezza dell’opinione pubblica e alla promozione di azioni dirette a migliorare la sostenibilità globale, la conservazione dell’ambiente e della biodiversità, la salute umana e la sovranità alimentare. L’insieme di queste buone pratiche costituisce il principio fondante dell’Agroecologia.
Mi trovo perfettamente d’accordo con la definizione di questa disciplina che ha dato Paolo Barberi, docente della Scuola Superiore S. Anna di Pisa, ossia: “L’agroecologia è un paradigma emergente in grado di soddisfare tutti i criteri di sostenibilità dei sistemi agroalimentari, ambientale, economica e sociale, e si pone in alternativa all’agricoltura industriale, che in questo ha largamente fallito”.
Come pratica l’agroecologia promuove sistemi agricoli diversificati, basati su un uso consapevole della biodiversità e sui servizi ecosistemici ad essa associati, ad esempio il controllo biologico dei parassiti. Come movimento l’agroecologia sostiene l’agricoltura familiare, le filiere corte, l’uso delle risorse locali, lo scambio di conoscenze tra operatori, cittadini e scienziati, una giusta remunerazione per gli agricoltori e gli allevatori e la riconnessione tra città e campagna (P. Barberi, 2019).
Oggi l’agricoltura si trova ad affrontare soprattutto tre grandi sfide: lotta ai cambiamenti climatici, sicurezza alimentare e salvaguardia dell’ecosistema. Tre grandi questioni che impongono l’adozione di misure anche drastiche, ma ormai indifferibili, tese a ricercare un migliore equilibrio ecosistemico e sociale. Una sfida difficile, ma dal cui esito dipenderanno molte delle sorti di questo pianeta.
Anche questa è una rivoluzione che deve partire dal basso: è pura utopia pensare di sfuggire, almeno nel breve periodo, alle correnti logiche di un mercato dominato da pochi soggetti con il denominatore comune della ricerca del profitto. L’obiettivo è quello di modificare la domanda, preferendo l’acquisto di prodotti che privilegino gli aspetti salutistici, biologici, sostenibili, a chilometro zero, con un packaging riciclabile, etc. Soltanto modificando le nostre scelte si può sperare in un cambiamento dal lato dell’offerta.
Di fronte all’ottusità di chi impone e non subisce le nostre scelte, dobbiamo essere capaci di ribaltare questa sorta di paradigma: ne va della nostra salute e di quella della nostra beneamata Terra.
Paolo Caruso
Creatore del progetto di comunicazione “Foodiverso” (Instagram, LinkedIn, Facebook), è agronomo, consulente per il “Dipartimento di Agricoltura, Alimentazione e Ambiente” dell’Università di Catania e consulente di numerose aziende agroalimentari. È considerato uno dei maggiori esperti di agrobiodiversità