Orario flessibile, condivisione, riunioni brevi e mirate sono i passaggi fondamentali nell’organizzazione del lavoro. Il vero manager non comanda, non si impone d’autorità, ma insegna, partecipa, suggerisce, ascolta
di Alberto Vito
Il tema dell’organizzazione del lavoro, del clima aziendale e della valutazione dell’efficacia, ha conquistato l’attualità. In particolare, durante la pandemia vi è stato un notevole aumento dello smart-working, che sino ad allora nel nostro paese era poco utilizzato a causa di un ritardo culturale di aziende e pubbliche amministrazioni. Tuttora il lavoro da casa è visto da molti con sospetto, nonostante diverse ricerche propongano conclusioni inaspettate e ne propugnano l’utilità. Si tratta spesso di studi scientifici seri, condotti con campioni ampi, confrontando diversi modelli aziendali, che impongono riflessioni con cui confrontarsi.
In ogni caso, gli esperti da tempo enfatizzano la necessità per il datore di lavoro o il dirigente, nella valutazione dei dipendenti, di sottolineare e premiare la produttività piuttosto che limitarsi ad un giudizio basato esclusivamente su parametri burocratici. Oggi sono noti i motivi che rendono molti luoghi di lavoro poco funzionali e sono proposti metodi alternativi per sviluppare appieno le potenzialità del lavoratore. La premessa è che deve esser pagato per la quantità di lavoro che produce, non per la porzione di vita che offre. Questa semplice idea contribuisce a sviluppare un personale più stimolato, concentrato, disciplinato e, soprattutto, soddisfatto. In tal senso, sembra che l’orario flessibile – pause programmate durante l’orario di lavoro per svolgere mansioni personali, o riposare, o altre concessioni simili – influenzano positivamente la produttività. In pratica l’orario di lavoro deve senz’altro tener conto delle esigenze dell’istituzione, ma la produttività non diminuisce, anzi aumenta se si riesce a tener conto anche delle esigenze personali del lavoratore (che è anche un padre o una madre, un figlio, un marito o una moglie). Il grado di soddisfazione, insomma, correla positivamente con l’efficacia della prestazione.
Gli psicologi considerano questi gli indicatori più importanti del benessere organizzativo: condivisione degli obiettivi, motivazione, senso di appartenenza, soddisfazione lavorativa, sviluppo di relazioni di fiducia, equità/meritocrazia, possibilità di esternare le emozioni. È essenziale considerare la persona come valore, come risorsa di cui avere cura. Il leader deve dunque possedere capacità relazionali, tra cui è fondamentale la capacità d’ascolto. Tali capacità si possono in parte apprendere, anche se la predisposizione di partenza è essenziale, ma ciò che è più importante è altro: deve avere cuore.
I nostri studi indicano il modello “baronale” come poco funzionale. Essi ci suggeriscono come le strategie che puntano a “stressare” l’altro siano efficaci solo nel breve tempo, ma alla lunga sono deleterie e distruttive per tutti, sia leader che gruppo. Anche nelle piccole aziende, dove il rapporto personale diretto è ancora più importante, è opportuno migliorare l’organizzazione del lavoro. La parola chiave è motivazione.
Un bravo leader deve saper motivare il proprio gruppo. Deve aver pazienza perché i tempi di decisione di un gruppo sono senz’altro più lenti rispetto a quelli di un individuo singolo, ma è dimostrato che quando una decisione viene vissuta come condivisa e non subita, è molto più facile che sia rispettata (questa semplice regola vale anche nelle relazioni di coppia, come insegnano anche gli accordi di separazione coniugale che talvolta sono disattesi dalle parti proprio perché non hanno partecipato alla loro definizione).
Altre ricerche invece si soffermano sull’analisi delle riunioni di lavoro mostrando come quelle troppo lunghe, con lo scopo principale di affermare il potere di uno a discapito del gruppo, gestite in modo unilaterale, non orientate all’ascolto delle opinioni collettive ma attente solo al ruolo di chi parla, non rivolte alla risoluzione dei problemi, sono non solo inutili ma finanche dannose in quanto mortificano la creatività e l’autonomia. Gli studiosi osservano come le riunioni veramente operative non superino quasi mai le due ore. In Italia, invece, pare che ci sia il primato dell’assemblearismo aziendale. Il prof. Vaccani della Bocconi qualche anno fa affermò che la riunione è “un rito, un cerimoniale, un’operazione di facciata, che serve a ratificare decisioni già prese”.
È peraltro evidente come nei team ben funzionanti siano previsti diversi momenti di condivisione collettiva, anche informali, che servono moltissimo a fare “squadra” e a stemperare le tensioni. Al contrario, nei team dove la competenza comunicativa è minore, le riunioni di equipe diventano più spesso occasioni unicamente di conflitto e quindi si diradano progressivamente. Viviamo nella cosiddetta “Era dell’Informazione”, della tecnologia che avvicina le persone, ma nella sostanza la natura del posto di lavoro, gli orari e la presenza obbligata dietro una scrivania non sono cambiati dall’”Era Industriale”, quando la catena di montaggio esigeva la presenza fisica dell’operaio. Non è necessario che lavoratori e aziende stravolgano la propria natura per attuare questa rivoluzione: basta cambiare modo di lavorare.
A nulla servono le competenze relazionali se non sono accompagnate da un sincero interesse verso i colleghi, visti in quanto persone, con pregi e difetti, limiti e risorse, desideri e paure, e non solo come semplici pedine di un proprio personale disegno o meri esecutori di un progetto altrui. Non si tratta più di “costringere” a lavorare gli altri, ma di facilitare la partecipazione di tutti al processo, creativo e gratificante, di svolgere un’attività utile individualmente e collettivamente. È evidente che viene richiesto per alcuni un cambiamento culturale: eppure il futuro prossimo va in questa direzione.
Proprio come nel caso dei genitori, i manager insegnano non con le parole, ma con i fatti. Conta come si comportano, l’esempio concreto, più di quello che dicono. Il vero manager non comanda, non si impone d’autorità, ma insegna, partecipa, suggerisce, ascolta.
A proposito: offre consulenze gratuite (quasi) a capi che vogliono imparare a sorridere. Il vino è sempre molto ben accetto…
Alberto Vito
Psicologo, Psicoterapeuta familiare, Sociologo. Dirige l’UOSD di Psicologia Clinica degli Ospedali dei Colli di Napoli. Didatta della Scuola Romana di Psicoterapia Familiare. E’ stato Giudice Onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Napoli. Autore di diversi volumi, di cui l’ultimo è 88 Divagazioni. Psicologia, ricordi e altri pensieri, edito da La Valle del Tempo (2023).