Alla Capanna dei fratelli Soncini una storia di feste e di tavole imbandite: “Manteniamo le tradizioni divertendoci con amore e fatica”
di Alessandra Meldolesi
C’è un posto magico sul Delta del Po, dove il buono è un affare di famiglia. Un’oasi di romanticismo oltre la coltre nebbiosa del grande fiume, dove il tempo sembra essersi fermato. Ad aprirlo nel 1922 è stato nonno Luigi, animatore di un’osteria con butega, dove acquistare generi alimentari, vino e stoffe, come nel Far West, mentre tutt’intorno infuriava la miseria. La gente passava a fare la spesa una volta a settimana; poi c’era la mescita con un piatto di salumi per i biroccianti, che trasportavano lungo la strada ghiaia e altre merci. Di che sfamare una famiglia numerosa: papà Eraclio, che ha battezzato la Capanna, aveva 6 fratelli e sorelle. La gente aveva voglia di divertirsi, quindi avevano aperto la sala da ballo, un fratello riparava le biciclette, un altro tagliava i capelli, mentre la sorella faceva la messa in piega. Come in un centro commerciale. Finché nel ’55 era arrivata mamma Vanda, che aveva lavorato nella gastronomia della cugina a Bologna e amava cucinare. Nonno Luigi le trasmise le ricette tradizionali di pesce e cacciagione: tutta una cucina di valle e di mare prettamente maschile, praticata dagli uomini quando andavano in barena a cacciare e pescare, mentre le donne restavano a casa per accudire i bambini. Dopo lo spopolamento causato dalla meccanizzazione dell’agricoltura, la posa delle linee elettriche negli anni ’60 portò un nuovo pubblico di operai, che passavano a pranzo per un piatto di tagliatelle o una minestra di fagioli. La gente iniziava a guidare l’automobile e di domenica passava a mangiare il pesce catturato nel canale oppure i polli. Si cucinavano i selvatici e le rane, un’offerta che si è poi ampliata sempre più, di pari passo con la ristorazione italiana.
Maria Grazia: Sono nata qua, in casa. E come tutti i figli di ristoratori, da bambina ho contribuito all’economia familiare pelando le patate, sgranando i legumi, pulendo le rane. Via via che la clientela è cresciuta, abbiamo cominciato a fare ristorazione, anche se la licenza restava quella basica di osteria con cucina. A me piaceva preparare il pinzimonio, i sottaceti, i piatti di salumi, l’insalata russa. Ma ovviamente era l’ultimo lavoro che avrei voluto fare, quindi ho iniziato a studiare medicina, poi nel fine settimana tornavo ad aiutare. Erano gli anni ’80 e c’era un grande fermento, io e mio fratello eravamo curiosi e i nostri genitori ci hanno lasciato campo libero. Così abbiamo introdotto qualche novità. Pur continuando a fare le stesse cose di sempre, io leggevo le riviste, consultavo le guide, andavo a mangiare negli altri ristoranti. C’era qualche soldo in più, per cui provavo, filtravo e a volte ripetevo. Guardo con tenerezza ai vecchi piatti, nella loro ingenuità. Per esempio mia mamma faceva i garganelli e li servivamo con il salmone affumicato e gli asparagi. Oppure il salmone crudo con valeriana e rucola, passato in acqua di mare con la soia, perché c’erano nuovi mondi da scoprire. E io ho copiato tanto, per esempio le mazzancolle di Pierangelini, che ho sempre citato. Il Trigabolo in tutto questo è stato un faro: mangiando lì, capivi che potevi vedere la cucina da una prospettiva diversa. Oppure il Sambuco, con i tavoli rotondi e i fiori freschi. Io usavo le bottigliette del Campari soda e raccoglievo i fiori di campo.
Pierluigi: Anche per me è stato normale tornare a casa da scuola e aiutare al ristorante. E il mio esordio è stato proprio col vino. Allora da noi funzionava principalmente l’osteria e il mio primo compito è stato travasare ogni giorno lo sfuso dalle damigiane nei bottiglioni, che avevo precedentemente lavato, per poi mescerlo agli avventori, che spesso giocavano a carte. Quindi erano quarti di vino o ombre di vino, perlopiù Trebbiano di Romagna o bianco dei Colli Euganei. Allora bere non mi piaceva; poi con la trasformazione in ristorante mi ero posizionato in sala, con Maria Grazia in cucina, e spesso mi sono trovato confrontato a clienti che ponevano domande sul vino, cui non sapevo rispondere. Cosicché ho frequentato i corsi e sono diventato sommelier.
Maria Grazia: Oggi alla Capanna abbiamo 22 coperti, ma siamo solo in 5. Io dormo di sopra cinque giorni a settimana, la mattina arriva la donna per le pulizie e io inizio a lavorare. Quella con Pierluigi non è una collaborazione, ma una sinergia. Lui segue la sala durante il servizio e i vini, ma ogni pomeriggio pulisce i granchi e le granseole. Gli abbinamenti sono solo suoi. Io mi occupo dell’esecuzione dei piatti. Ma non esiste un pairing vero e proprio, lasciamo i clienti molto liberi, al massimo li consigliamo. Ogni tavolo è una storia a sé e in generale non perseguiamo l’abbinamento a tutti i costi. L’importante è che ognuno mangi e beva le cose che gli piacciono.
Pierluigi: Oggi in carta abbiamo circa 200 referenze: prevalentemente bianchi, perché la cacciagione c’è solo in inverno, con una quota di macerati friulani, sloveni e romagnoli, spumanti di diverse zone d’Italia e Champagne di piccoli vigneron. Capita spesso, inoltre, che con Maria Grazia ci sediamo insieme ad assaggiare.
Alessandra Meldolesi
Nata a Perugia, Alessandra Meldolesi dopo gli studi e uno stage alla Comunità Europea ha scelto la cucina, diplomandosi alla scuola Lenôtre di Parigi e lavorando brevemente come cuoca presso ristoranti stellati. È sommelier, autrice di numerosi libri, traduttrice e giornalista specializzata da oltre vent’anni.