Il Capanno di Mauro e Cristina continua a crescere, puntando su materie prime d’eccellenza e una cantina ricercata: “Il nuovo codice della strada? Abbiamo fatto il test dell’etilometro: con i nostri piatti un paio di bicchieri si possono bere…”
di Alessandra Meldolesi
Erano i primi anni ‘70 quando papà Giuseppe e mamma Angela Rastelli, da perfetti autodidatti, decisero di convertire all’accoglienza un terreno di famiglia a pochi chilometri da Spoleto. Non un ristorante vero e proprio, ma uno spazio per le merende d’estate, visto che con la neve nessuno si azzardava. Accanto al vecchio capanno da caccia, con il camino e lo spioncino per sparare a tordi e colombacci, prese così forma una piccola costruzione, dove iniziarono a essere serviti anche primi al matterello e carni alla griglia, ma solo a pranzo, visto che Giuseppe, che era addetto alle braci, continuava a lavorare come contoterzista nei campi e aveva così modo di rifornire la dispensa. Il primogenito Mauro fin da ragazzino veniva spedito in mezzo ai tavoli, ma per la timidezza capitava che si arrampicasse sugli alberi; mentre la sorella Cristina frequentava l’alberghiero di Spoleto per prendere in mano la cucina. Nel frattempo il locale cresceva, con nuove sale e qualche camera per gli ospiti; la squadra si ampliava alla moglie di Mauro, Daniela, ai primi e ai dolci; poi al figlio Giulio agli antipasti. E la fama si diffondeva: i tre gamberi, la chiocciola, il passaparola di critici e gourmet. Il territorio ovviamente continuava a farla da padrone con le sue materie prime, dagli agnelli ai tartufi, dai salumi ai formaggi, dalla selvaggina ai vegetali anche spontanei, accompagnati da vini spesso umbri, come il Trebbiano Spoletino, vitigno a sé stante che ha fatto innamorare la critica per le potenzialità di invecchiamento e il viraggio empireumatico, provvidenziale sul tartufo.
Cristina: Io sono fissa in cucina dal 1992, quando l’aiutante di mamma sotto Pasqua ebbe un incidente. Mauro c’era già, ma solo nel 1995 abbiamo preso in mano il ristorante. Ed è stato un passaggio graduale. Capita ancora che nostra madre venga a darci una mano, per spennare i piccioni o preparare qualche uovo di pasta. All’Alberghiero avevo fatto tante ore di pratica, ma quando tornavo a casa vedevo che preparavano tutto a mano, gli arrosti, le paste, i dolci. E io pascolavo qua dentro, facevo i compiti in cucina e rubavo con gli occhi, imparando a pulire un prosciutto o preparare una conserva. Poi una volta al timone, io e mio fratello abbiamo cominciato a cambiare tipologia di ristorazione, perché quando i nostri genitori avevano iniziato, fra Terni e Spoleto c’erano al massimo dieci posti, mentre ora se ne contano duecento. Ci siamo chiesti cosa volesse il mercato e abbiamo operato una rilettura dei piatti tradizionali, alleggerendoli senza snaturamenti. Ai vecchi salmì, che sobbollivano per 4 o 5 ore col soffritto, abbiamo preferito preparazioni più digeribili, sempre con la migliore materia prima. Quegli ingredienti che da soli o quasi fanno il piatto.
Mauro: Sono io a occuparmi delle materie prime e delle carni, oltre che della cantina. E in questo ho seguito le tracce di mio padre, che a volte accompagnavo a scegliere agnelli e maiali, da chi allevava polli o faraone e dai contadini. A quei tempi erano più numerose le donne che si dedicavano alla campagna, quindi tanti ingredienti erano facili da reperire, ma anche oggi non è un’impresa impossibile. Col tempo sono riuscito a trovare cose che ci soddisfano e non in modo episodico, tenendo conto che se facessimo 150 coperti anziché 60, non potrebbero bastare. I fuori menu nascono proprio quando arrivano la verdura del contadino e la salsiccia del maiale giusto. È stato girando, assaggiando, confrontandoci con gli ospiti che abbiamo maturato l’esigenza di alzare l’asticella e capire meglio gli ingredienti, senza che ci scapitasse il sapore. Anche se ci sono palati all’antica, che preferiscono i piatti di un tempo, e specialità che non avrebbe senso ingentilire, come la pajata o le lumache. Sulle riletture assaggiamo e ci confrontiamo tutti insieme per capire se il piatto va bene, cercando un punto di incontro.
Cristina: Mauro mette becco in cucina, ma anche a me piace il vino. Certo non ho la sua padronanza, visto che ha girato e assaggiato tanto. Ma qui dentro ne ho provati di vini! Un tempo prediligevo quelli umbri e toscani, poi Mauro mi ha fatto scoprire il Piemonte. Ed è un mondo che mi affascina sempre di più. Capita che un cliente amico stappi una bottiglia importante e voglia farcela provare, o che ci sia una serata di degustazione. A volte testiamo insieme anche qualche abbinamento, perché diversi calici conferiscono una sfumatura particolare al cibo. Può succedere persino che mi si chieda di cambiare un piatto secondo quel che viene stappato, allora per esempio niente aceto sui raperonzoli.
Mauro: Ricordo che quando c’era mio padre, andavamo insieme a Montefalco per comprare le damigiane di sfuso e poi io imbottigliavo. Ma non era mai stabile, una volta era buono, un’altra così così. Oggi tutto è cambiato. Devo ringraziare un paio di rappresentanti per avermi fatto visitare le prime cantine, da lì ho iniziato a stendere una piccola carta e partecipare a degustazioni e anteprime. Insomma sono nato autodidatta, finché non mi sono tolto lo sfizio di frequentare i corsi da sommelier. Ed è stato fondamentale, perché mi hanno aperto la mente. Ancora oggi, quando ho qualche giorno libero, parto per la Borgogna, il Piemonte, la bassa Francia o il Carso, associando qualche produttore per esempio di formaggi. Il risultato è che in cantina abbiamo un migliaio di etichette fra Italia, Francia, Germania e Austria. Chi viene da fuori di solito vuole bere umbro, e sono ben lieto di accontentarlo. Ma tanti altri arrivano per il Piemonte e per la Francia, anche grazie ai ricarichi modesti. Per noi il vino è quasi un servizio, siamo in campagna, lontani da fabbriche e grandi centri; se chiedessimo di più, la gente non verrebbe. Ci riusciamo perché tante cose le compro passando in cantina, cosicché i prezzi a volte sono inferiori all’online. Certo dopo Natale abbiamo constatato un calo repentino delle vendite, nell’ordine del 20-30%, che adesso si sta un po’ ridimensionando. Magari il tavolo che prima ordinava due bottiglie, ora ne chiede una sola e due calici. Quindi abbiamo aumentato lo sbicchieramento, con 10 rossi, 4 bianchi e 2 bolle in mescita. Utilizzando un etilometro ben tarato abbiamo verificato che anche dopo una bottiglia di Sagrantino e un calice di passito in due, mangiando un menu completo in un paio d’ore i valori restano ampiamente nel range. Quindi conta molto che il pasto sia lento e abbondante. Contro i miei interessi dico invece che è meglio evitare i superalcolici, perché basta un bicchierino di whisky prima di partire per spostare i valori. Probabilmente gli ospiti si abitueranno a ordinare una bottiglia migliore, anziché due, e noi faremo meno acquisti. Ma è tutto da vedere. La conoscenza può aiutarci a uscire dalla paura.
Alessandra Meldolesi
Nata a Perugia, Alessandra Meldolesi dopo gli studi e uno stage alla Comunità Europea ha scelto la cucina, diplomandosi alla scuola Lenôtre di Parigi e lavorando brevemente come cuoca presso ristoranti stellati. È sommelier, autrice di numerosi libri, traduttrice e giornalista specializzata da oltre vent’anni.