Un viaggio alla scoperta del gusto con più personalità, attraverso due bevande tipiche del Sud America: perché non immediato e difficilmente piace al primo assaggio. Il racconto della serata al Colegio de Salamanca di Torino
di Davide Risso
È all’interno di un luogo così accogliente come il Colegio de Salamanca di Torino che ho avuto l’onore di presentare, insieme a Graziella Giugno, assaggiatrice senior presso una grande azienda di caffè, una panoramica sull’amaro.
Un gusto italiano, per usare le parole di Massimo Montanari, ma anche caratteristico di due bevande tipiche del Sud America. Nella prima, il caffè, si trova sottoforma di numerosi composti dei quali, forse sorprendentemente, la caffeina contribuisce solo a circa il 10-15% perchè proviene principalmente da composti meno conosciuti e più presenti nella varietà robusta, che si generano in seguito a una sapiente e bilanciata tostatura del chicco: una troppo timida non riuscirebbe a valorizzare questo gusto e i diversi aromi, mentre una troppo spinta porterebbe a una bruciatura con conseguente formazione di sapori sgradevoli.
Nella yerba mate, l’amaro invece emerge grazie a un mix speciale di composti del caffè, del cacao e del tè, tutti insieme. Che si concentrano sempre più con la continua aggiunta di acqua calda alle foglie di questa pianta. I partecipanti della serata al Colegio hanno avuto modo di assaggiare e scoprire questo gusto in tre varietà di caffè (una Arabica Lavato poco amara, anzi dolce, della Colombia, una Arabica Naturale più bilanciata del Minas Gerais del Brasile e una Robusta Naturale (varietà Conilon) più amara, di Espirito Santo sempre in Brasile) e in un mate cocido, lasciato in infusione un po’ più a lungo del solito.

Non è un caso speciale che le componenti di queste piante del Sud America, il chicco del caffè o le foglie del mate, siano amare. I composti amari, infatti, provengono spesso da fonti vegetali, perchè è uno dei pochi modi che queste hanno di difendersi da potenziali predatori, non essendo dotate di fauci o artigli. Infatti, anche se con eccezioni, il numero di recettori dell’amaro aumenta tante più piante troviamo nella dieta degli animali. Pochi nei carnivori, di più negli onnivori (26 nell’essere umano, ad esempio) e molti negli erbivori.
È un segnale di pericolo che allontana potenziali predatori, ma è anche il gusto di composti estremamente importanti per la nostra salute in piccole dosi, come alcune vitamine o antiossidanti che si ritrovano in verdure come cicoria, tarassaco e carciofi. Non per nulla gli stessi recettori dell’amaro che abbiamo sulla lingua, sono presenti anche in altre parti del corpo insospettabili, come i polmoni e l’intestino. Aiutandoci – dal punto vista immunitario – a facilitare della digestione e ad aumentare del senso di sazietà. Un motivo in più per mangiare alimenti amari…

Davide Risso
Nasce ad Alba, nel cuore delle Langhe, ma si forma a Pisa, Bologna, Potsdam (Germania), Bethesda e Seattle (USA), laureandosi in scienze naturali e biologiche per poi specializzarsi in scienze molecolari del gusto. Lavora in una multinazionale alimentare con sede a Londra, dove è a capo di un gruppo di ricerca nutrizionale. Autore di oltre 40 pubblicazioni scientifiche su riviste internazionali e di De Gustibus (Topic, Giunti Editore, 2023), vincitore del Premio Selezione Bancarella della Cucina 2024 e tra i migliori testi di divulgazione scientifica del 2024.