Nonostante la grande rivalutazione della risorsa negli ultimi lustri specie in Sicilia, l’occasione per piccoli e medi produttori non è sfruttata al meglio e soffre di varie carenze, ma resta una opportunità da sfruttare
di Paolo Caruso
Dopo un decennio dalla ricomparsa in grande stile dei grani antichi, soprattutto in Sicilia, sono necessarie alcune considerazioni. Il settore dei grani antichi ha rappresentato e forse ancora rappresenta una speranza per una minoranza di agricoltori. La loro rilevanza dal punto di vista della sostenibilità sociale, ambientale e salutistica è stata dimostrata ad ogni livello; non altrettanto si può dire per quella economica.
Questa criticità emerge sia dal lato della produzione che da quello del consumo. Gli agricoltori siciliani, duole dirlo, non sono ancora stati in grado di valorizzare un patrimonio di straordinaria importanza, localizzato e custodito su quest’isola grazie alla posizione “Mediterraneo centrica” e alla ricchezza di differenti condizioni pedoclimatiche, che ne hanno esaltato le doti di ambientamento creando le condizioni per la genesi di un’eccezionale varietà genetica, anche se delle 298 “popolazioni locali” presenti nel 1927, oggi ne restano conservate e riprodotte “solo” 57, grazie soprattutto all’eccezionale lavoro della Stazione di Granicoltura di Caltagirone.
La difficoltà nell’intraprendere un percorso virtuoso di filiera dedicata sono molteplici e di varia natura. I produttori, purtroppo, non sono ancora stati in grado di organizzarsi per poter concentrare l’offerta e di conseguenza non sono in grado di ridurre i costi grazie alle economie di scala. Si va in ordine sparso con la presunzione di poter fare tutto da soli. Malgrado una domanda in lenta ma continua ascesa, coltivare grani antichi in Sicilia continua ad essere una scommessa.
Diversi agricoltori non hanno ben compreso che le regole del settore sono molto diverse da quelle del settore cerealicolo abituale: è come se ci presentasse con delle racchette da ping pong per giocare a tennis.
L’approccio al settore dei grani antichi deve essere differente. In assenza di una filiera riconosciuta e trasparente, coltivare tanto per farlo non paga, in termini economici e prospettici. Trovarsi con un prodotto che non può essere mistificato con i grani moderni, con le relative e conseguenti difficoltà di vendita, restituisce solo un senso di frustrazione determinato dall’assoggettamento a figure quali i mugnai ‘convenzionali’, per i quali i grani antichi rappresentano una percentuale marginale del proprio volume d’affari, se non un vero e proprio fastidio.
Purtroppo l’incapacità e l’inconsapevolezza di possedere, tutelare e valorizzare adeguatamente un prodotto unico, ha aperto la strada a scorribande di produttori e trasformatori d’oltre Stretto che, dopo aver fiutato la preda, stanno realizzando le condizioni per appropriarsene definitivamente. Anche perché il sistema di iscrizione delle varietà locali di “grani antichi” al Registro Nazionale delle Varietà da Conservazione sta mostrando limiti e carenze.
Siamo venuti informalmente a sapere che di alcune delle più diffuse varietà sul mercato, non esistono da un paio di anni semi certificati dal CREA, l’ente preposto a questa attività. Molti degli agricoltori custodi, per diversi motivi, non certificano i propri semi, alimentando le incertezze sulla tracciabilità della filiera e aumentando il serio rischio di inquinamento del seme e perdita, anche se non immediata, della purezza varietale. Sarebbe opportuna una iniziativa istituzionale che garantisca la purezza e la certificazione di questi semi, affidando magari questa attività a enti di ricerca da affiancare agli agricoltori custodi. D’altronde le strade dell’aggiramento delle leggi sono infinite.
Eclatante in tal senso è l’esempio del Perciasacchi, il più versatile dei grani antichi siciliani, oggetto di appetiti da parte di imprenditori non siciliani che hanno fatto una forzatura, anche legislativa, per istituire un “Registro volontario dei turanici” e aprire la strada alla sostituzione del più caro e meno sostenibile Kamut, con dei grani “Khorasan” che somigliano in modo sorprendente al Perciasacchi.
D’altronde i siciliani non sono neanche i legali proprietari dei termini “Timilia”, “Maiorca” e tanto meno “Grano antico”, di pertinenza di un’azienda veneta: quasi bisogna chiedere la cortesia per poterli usare. Figurarsi se – in questo scenario – si è stati in grado di mettere un mantello di protezione a questi prodotti che si chiami, DOP, IGP, etc. Qualcuno (come Silvia Turco, agricoltrice) ha lanciato l’ottima idea di attribuire il patrocinio dell’UNESCO ai grani siciliani e alla Stazione di Granicoltura. L’accoglimento di questa proposta metterebbe al riparo, forse definitivamente, la Stazione e le varietà locali di grano da una burocrazia distratta e da appetiti di soggetti poco raccomandabili.
Una delle maggiori criticità che impedisce, a detta di molti, la definitiva affermazione dei grani antichi sul mercato, è rappresentata dall’eccessivo costo medio dei prodotti da essi derivati, soprattutto se rapportato ad una platea di potenziali clienti che vede ogni giorno assottigliare il proprio potere d’acquisto.
Oggi questi prodotti sono di fatto riservati a un pubblico alto spendente, informato e attento alle qualità salutistiche.
Ma l’intervento in forze delle più grandi realtà agricole d’Europa in questo settore sta cambiando le carte in tavola. Su qualche scaffale della GDO si possono trovare confezioni di pasta prodotta con semola di Senatore Cappelli a un prezzo assolutamente concorrenziale con il prodotto “convenzionale”.
Ci sembra una novità importante che rischia però di produrre una distorsione nel mercato a tutto svantaggio di piccoli e medi produttori che hanno nell’”artigianalità” e nella qualità i loro punti di forza, ma che ripetiamo non hanno saputo fare squadra.
Altra nota dolente del settore è rappresentata dalla scarsa o nulla propensione al marketing dei protagonisti di questo settore. E non si tratterebbe di elaborare strategie sofisticate: basterebbe riportare fedelmente quanto la comunità scientifica ha già certificato in termini di qualità nutrizionali, salutistiche e contributo alla sostenibilità che queste coltivazioni apportano.
La ricerca ha però bisogno di fondi e occorre segnalare un sostanziale disinteresse, se non con iniziative isolate e quasi mai organiche, da parte delle istituzioni preposte. Basti pensare che ancora non è stata elaborata una definizione univoca del termine “grani antichi”, che siamo quindi costretti a virgolettare, in attesa che l’espressione in questione dall’uso odierno prettamente commerciale, venga incardinato in un perimetro tracciato dalla comunità scientifica. Siamo oggettivamente stanchi di discutere se, ad esempio, il Senatore Cappelli o il Capeiti debbano essere inclusi in questa categoria.
Di certo c’è che, ad oggi, non conosciamo neanche le proprietà qualitative di tutte le popolazioni siciliane. Potremmo, ad esempio, possedere una varietà che permetta di fare la migliore pasta del mondo in quanto a qualità salutistiche, ma non lo sappiamo.
D’altronde chi ha speso più fondi per la ricerca sui grani antichi in Italia è la Kamut Enterprises, che di certo ha poco interesse su queste tematiche prettamente sicule.
Occorrerebbe una regia istituzionale che coordini iniziative pubblicitarie e informative che, sono certo, potrebbero creare le condizioni per una crescita esponenziale della richiesta di questi prodotti, ma evidentemente queste iniziative non interessano a nessuno.
D’altra parte non si segnalano moti di sommossa da parte dei coltivatori e trasformatori siciliani, evidentemente il proprio orticello basta e avanza.
Così, trascinati dall’indolenza siciliana, tiriamo a campare, fino a quando la scaltrezza e l’organizzazione d’oltre stretto farà svanire anche questa speranza, ripetendo quanto fatto nel 1866 con il riso siciliano.
La storia, a noi siciliani, non ha insegnato nulla.
Paolo Caruso
Creatore del progetto di comunicazione “Foodiverso” (Instagram, LinkedIn, Facebook), Paolo Caruso è agronomo, consulente per il “Dipartimento di Agricoltura, Alimentazione e Ambiente” dell’Università di Catania e consulente di numerose aziende agroalimentari. È considerato uno dei maggiori esperti di agrobiodiversità