Lo scrittore partenopeo racconta la sua città che non esclude nessuno e anche a tavola accoglie tutti, tra memoria gastronomica, nuove frontiere, pizze a portafoglio e innovazioni gourmet
di Titti Casiello
Adrian Martin associava Napoli a Giano, il dio romano bifronte che guarda avanti, ma pure indietro. Lo scrittore americano era riuscito a vedere della città quell’inscindibile anima che l’appartiene, dove passato e presente si completano, l’uno cagione e fortuna dell’altro.
Ed è una città multiforme anche quella che vede Maurizio de Giovanni della sua Napoli, terra madre che racconta, in poco più di una cinquantina di pagine, nel suo libro Robin Food (Slow Food editore).
Il cibo come filtro attraverso cui raccontare il tessuto sociale di una Napoli gastronomica che mentre si fa memoria di un passato diventa ragionamento di un presente attraverso le scelte arrabattate del protagonista, Roberto, per evitare che la sua osteria chiuda i battenti.
De Giovanni usa allora i sapori per raccontare la gente e la vita di una città che si fa nuova, modellata sui tempi che respira, ma dove ogni passo sembra ripercorrere quello di chi già si muoveva dall’agorà fino alla necropoli di questa città, in una strana consistenza tra passato e presente.
“È una realtà unica seppure fragile invogliata dall’avanzamento nel futuro con un turismo che mantiene vivo l’intersecarsi continuo delle epoche” così gli odori remoti si mescolano ai sapori contemporanei “mantenendosi nel solco della tradizione con la volontà di fare, però, qualcosa di diverso. È in questo che sta l’innovazione della cucina napoletana”.
In una città dove non si sa mai dove finisce un’era e ne incomincia un’altra, fatta di palazzi borbonici su decori del Cinquecento, di affittacamere con arredamenti Ikea circondati da maioliche antiche, anche i nuovi ristoranti si alternano alle porte degli esercizi commerciali dei piscivinnoli (pescivendoli) e dei verdummari (fruttivendoli) “È un centro storico che non si è distrutto per l’eccessiva turistificazione, ma che ha imparato ad adattarsi”.
E semmai servisse una conferma di quelle caratteristiche mutanti di Napoli, alla popolarità della pizza, che per secoli ha fatto parlare la stessa lingua alla Napoli bene e a quella dei quartieri spagnoli, oggi fa seguito la pizza gourmet.
Flavio Briatore con il suo Crazy pizza è solo l’ultimo che è arrivato a Napoli, ma che, come già tanti altri pizzaioli napoletani prima di lui, ha mostrato di avere poco in comune con le pizze a portafoglio del quartiere Sanità, Forcella o dei Quartieri Spagnoli.
“Sono pizze diverse, innovative, che possono coesistere insieme”. Quelle pizze elitarie secondo de Giovanni non hanno, infatti, rotto il rapporto che esiste tra i napoletani e la tradizione “fin quando esisterà la possibilità di scegliere”.
La sua preoccupazione va a ben altro, pensando a quando questa possibilità non ci sarà, a quando quei famosi scontrini da 30 euro per una pizza e una bibita potrebbero diventare la normalità anche in quel crocevia tra via Benedetto Croce, Piazza San Domenico maggiore, Piazza Miraglia e Via dei tribunali, che simbolicamente, ha sempre disegnato il quadrilatero della pizza popolare.
“È l’entità della comunicazione di questa pizzeria e dei suoi prezzi che mi spaventa, non la pizza di Briatore di per sé”.
Jamm a mangià ‘na pizz, in questa città non è, infatti, solo un invito, ma è un’enciclopedia di significati dove il cibo dei ricchi si unisce a quello dei poveri e non c’è più distanza per un panetto di 250 gr di farina e acqua al quale tutti possono attingere “ma se comincia a costare 20 euro, a cambiare non è la sostanza, ma il valore sociale”.
Oggi, però la città appartiene ancora a tutti, mostrandosi, con la sua ricca offerta gastronomica, di voler essere appartenuta da tutti. Lasciando così la pizzeria di quartiere, quella sotto casa con poche parole e a pochi euro, allo sguardo intimo e un po’ complice del napoletano, mentre a quello dei curiosi, dei passanti e dei turisti gli concede la sua evoluzione “entrambi occhi di una stessa Napoli”.
Quella gelosa e orgogliosa, ma anche permeabile e influenzabile “con nuove ricette che possono essere scritte da chi ama la storia della città, ma che ha anche uno sguardo acuto sul futuro” attraverso piatti dove passato e presente convivono “come la cucina del mio amico fraterno Nino Scarallo a Napoli (Palazzo Petrucci) o quella di Peppe Guida (Antica Osteria Nonna Rosa) a Vico Equense o di Mariella Caputo a Nerano (Taverna del Capitano)”.
Menti geniali per de Giovanni che hanno messo in atto un sapiente rimescolamento delle ere e che, in qualche modo, si riperpetua anche nei vicoli della sua città, perché è bello come gli odori delle frittatine di genovese, di polpette di parmigiane di melanzane sappiano sfumarsi in mezzo ai ragù che pippeano (sobbollono) e ai piatti fumanti di spaghetti con le vongole fujute (fuggite) serviti ancora nelle vecchie trattorie, in un rapporto di quasi di armonia “purché ci sia onestà” quella stessa che alla fine del libro sembra traballare nel suo protagonista Roberto che pur di non chiudere bottega sventra la tradizione ridicolizzandola in un’estetica fatta solo di fuffa.
È qui che de Giovanni non fa sconti neppure alla sua Napoli “quando non si cambiano le cose e si fa solo finta di averle cambiate” con ricette e menù che portano solo via dalla tradizione e dai luoghi, come il dolce di oggi servito da Robin Food e descritto da Roberto al cliente di turno: “mistero di ricotta e grano al profumo di fiori …Io la chiamavo pastiera, pensate che ignorante”.
Titti Casiello
Classe ’84, avvocato. Dopo una formazione all’AIS Milano, è diventata giornalista pubblicista e oggi collabora con alcune riviste e guide di settore.