Storia dell’alimento che ha rappresentato un simbolo sociale e che oggi è al centro di un dibattito economico. Nel frattempo, il suo consumo è ai minimi storici
di Paolo Caruso
Il pane è giustamente considerato una conquista dell’uomo che, grazie alla sua inventiva e al suo estro, è riuscito con la tecnica a trasformare un prodotto della terra poco commestibile (frumento) in uno edibile.
Il pane è un alimento e un simbolo, il suo significato ancestrale rimanda all’idea stessa di sopravvivenza e prosperità. Il pane è stato il simbolo della cultura, della storia e dell’antropologia, della fame e della ricchezza, della guerra e della pace.
Fino a qualche decennio fa l’Italia veniva considerata una nazione poco sviluppata da un punto di vista alimentare, perché una parte significativa della sua popolazione trovava nel pane il principale se non esclusivo sostentamento quotidiano.
Nel nostro Paese, grazie all’elevato numero di varietà locali di frumento e agli antichi saperi tramandati nel corso dei secoli, l’arte panificatoria ha raggiunto vette di eccellenza assolute, ma negli ultimi anni si sta realizzando il passaggio da una struttura alimentare reputata povera per l’eccesivo consumo di pane, a un’altra ben più complessa che continua però a richiamare il carattere insostituibile di quella che ha rappresentato per secoli la componente fondamentale della dieta dei ceti popolari.
Nel giro di pochi decenni il pane è diventato, sia in termini quantitativi che qualitativi, un’intrigante chiave di lettura che ci aiuta a decifrare il differente rapporto con le necessità alimentari nelle varie fasi storiche; il suo consumo risulta inversamente proporzionale all’incremento dei redditi e al tenore di vita. Anche se il pane continua ad essere l’alimento base per gran parte della popolazione, la sua incidenza nel determinare il futuro e la vita delle persone risulta notevolmente ridimensionata.
Le profonde trasformazioni sociali ed economiche che attraversano il nostro Paese si sono riverberate anche sulla frequenza, sulla tipologia e sul modo di acquistare il pane, ma non è una novità: Pellegrino Artusi scriveva già nel 1891 che il pane aveva cessato di essere una semplice esigenza per diventare un’arte e un piacere per le famiglie.
Oggi, complice anche la demonizzazione dei carboidrati che li vede come i principali responsabili dell’aumento di peso, dell’insulino-resistenza e delle patologie collegate, il consumo di pane nel nostro Paese è ai minimi storici.
Questi ed altri motivi hanno portato i nostri panificatori più illuminati a diversificare la propria offerta, privilegiando una tipologia di pane che rappresenta il risultato finale di una filiera che rispetta tutti gli attori a partire dal contadino che produce il grano.
Le recenti polemiche scaturite dalle dichiarazioni di alcuni panificatori secondo i quali il pane, soprattutto in alcune grandi città, non può costare meno di 8 euro al kg, stanno alimentando un dibattito che ha catturato anche la nostra attenzione.
Questo tema richiede un’attenzione particolare perché è, a nostro parere, paradigmatico dell’attenzione al cibo nel nostro Paese.
E per avere pareri qualificati sulla materia in oggetto abbiamo chiesto a Tommaso Cannata, Pietro Cardillo e Angelo Calandra, ossia alcuni tra i migliori panificatori del nostro Paese, che si dedicano esclusivamente alla produzione di un pane ‘artigianale’, prodotto con materia prima proveniente dalla molitura di grani locali.
I nostri amici panificatori concordano con quanti affermano che il pane, soprattutto nelle grandi città, non può costare meno di 8/10 €/kg, a patto che questo prodotto abbia determinate caratteristiche.
Generalmente i professionisti che producono un pane di eccellenza lavorano una materia prima proveniente dalla coltivazione di varietà autoctone (i cosiddetti ‘grani antichi’), spesso trasformata in farina in mulini a pietra e lievitata dopo tempi molto lunghi.
Queste caratteristiche hanno come comune denominatore l’assenza di economie di scala e si basano sulla passione e il sacrificio di agricoltori e mugnai che privilegiano la qualità salutistica ed organolettica del prodotto, oltre alla tutela e valorizzazione della biodiversità che non è assolutamente questione secondaria.
La necessità quindi di retribuire in maniera dignitosa chi si spende quotidianamente per mantenere le proprie aziende agricole, assicurandoci un prodotto locale e di qualità, è un elemento che dovrebbe essere preso nella giusta considerazione anziché venir relegato tra gli aspetti marginali.
Dicevamo di una vicenda paradigmatica, perché troppo spesso nel nostro Paese si reclama un cibo di qualità, ma questa richiesta stride con la realtà economica con cui ci si deve confrontare.
I panificatori utilizzano una materia prima (farine e semole) distante qualitativamente anni luce da quella che impiegano panifici ordinari o peggio ancora ‘industriali’. Ovviamente il costo di acquisto di queste farine e semole è significativamente diverso da quelle ‘commerciali’. Così come diverso è l’ammontare necessario per sostenere i tempi di lievitazione.
Un altro mondo rispetto a quanto prodotto e venduto ad esempio nei punti vendita della Grande Distribuzione Organizzata (GDO). Il ‘pane’ offerto dalla GDO è un prodotto (viene difficile etichettarlo come pane) precotto e surgelato, il cui impasto spesso arriva dall’estero, soprattutto dall’Est Europa (Romania e Slovenia), di qualità scadente come testimoniato da recenti test di laboratorio che hanno evidenziato la presenza di pesticidi e conservanti. E oltretutto non ci risulta sia eccessivamente economico.
Per non parlare della dicitura che spesso ci propinano all’interno dei punti vendita dei grandi supermercati “sforniamo pane tutto il giorno”: fuorviante se non ingannevole. Se infatti potrebbe risultare ineccepibile da un punto di vista strettamente formale, visto che effettivamente il pane viene sfornato a più riprese lungo tutta la giornata, appare evidente una mistificazione della realtà: si è sempre in presenza di un prodotto non fresco.
Il pane in questione è un prodotto con una scadenza che arriva fino a 2 anni di vita, dal momento dell’impasto, mantenendosi commestibile solo grazie all’aggiunta di conservanti ed enzimi. Nell’elenco degli ingredienti trova spesso posto la dicitura: “semilavorato per panificazione”, a base di “farina di grano tenero tipo 0, lievito naturale di farina di grano tenero, alfa amilasi, agente di trattamento della farina: E300”. Insomma, un “semilavorato” con additivi per facilitare la panificazione. Il supermercato non fa altro che mettere l’impasto surgelato in un forno elettrico per realizzare solo la cottura finale.
Fatta salva la disponibilità economica di ciascuno, sulla quale non ci permettiamo di sindacare, basterebbe questo per apprezzare in misura maggiore quanto prodotto dai nostri artigiani e magari comprare un prodotto di qualità, sacrificando la spesa per qualche genere non di prima necessità, che oltretutto si conserva per un tempo significativamente maggiore rispetto al ‘pane’ dei supermercati. Anche in questo caso occorre fare delle scelte precise, la qualità costa e pensare di ottenerla con una spesa ridotta è quasi utopistico.
La qualità non è economica (purtroppo).
Paolo Caruso
Creatore del progetto di comunicazione “Foodiverso” (Instagram, LinkedIn, Facebook), Paolo Caruso è agronomo, consulente per il “Dipartimento di Agricoltura, Alimentazione e Ambiente” dell’Università di Catania e consulente di numerose aziende agroalimentari. È considerato uno dei maggiori esperti di agrobiodiversità