Viaggio sensoriale (non troppo immaginario) dalla terra al mare, a contatto con realtà solo apparentemente lontane tra loro
di Titti Casiello
È la capacità di “vedere le cose” a determinare quanto un’idea possa rivelarsi vincente e viti a piede franco, di quelle non innestate con una radice americana, o se si preferisce prefilloxera, e molluschi bivalvi dalla conchiglia tondeggiante ricoperta di lamelle squamose, o più comunemente ostriche, potrebbero apparire solo due mondi distanti.
E invece diventano un luogo sospeso tra mare e terra creando uno spazio perfetto per l’enogastronomia. Il punto di partenza è stato allo Yacht Club Marina di Stabia in una degustazione organizzata dal Ristorante Punto Nave di Monteruscello in collaborazione con l’AIOST (Associazione Italiana Ostricari).
“Aprire le ostriche in una boule adagiata sul ghiaccio e lavare bene le conchiglie” questo il primo monito di Alessio Cutino, co-fondatore insieme a Daniele e Simone Testa della prima associazione nata in Italia per la formazione degli ostricari e che scardina anche lo stereotipo (ed errore) più diffuso nei ristoranti italiani “l’ostrica non va mai servita attaccata ancora al suo guscio, ha bisogno che prima perda tutta la sua acqua”.
Di mitili effettivamente si sa ancora troppo poco e meno ancora della loro degustazione “riconoscere le ostriche, la loro diversa provenienza in base al profumo, al sapore e all’indice di carne. Adottare la giusta conservazione e saperle servire alla corretta temperatura” è questo l’obiettivo che AIOST intende raggiungere attraverso la formazione della figura dell’ostricaro “così dà saper proporre al cliente anche un abbinamento al vino più ragionato” precisa Serena Iammarino, sommelier di Punto Nave.
Mare e terra si incontrano allora in un crescendo di assaggi in cui ciascun vino sa esaltare le caratteristiche dei singoli mitili. Ed è un mare che si scrive tra alghe, sale, sentori di acciuga e talora anche di funghi o nocciola. Ogni ostrica sembra avere un sapore deciso, aspettando le prossime onde. La terra, invece, si scrive tra quelle poche viti ancora vergini, quelle cioè che alla fine dell’800 riuscirono a sopravvivere alla filossera, fungo mortifero che provocò la desertificazione della viticoltura in una guerra che vide vinti quasi tutti i vigneti. Per ripartire si scelse di ricorrere alla tecnica dell’innesto dove la mescolanza etnica di una radice americana e di un tronco europeo diede vita a una nuova “razza enoica” che ancora oggi rappresenta l’unica soluzione per la tenuta in vite dei filari dagli attacchi della fillossera. Eppure, alcuni, i più resistenti, risultarono immuni a questo fungo così da non aver bisogno di essere “contaminati” e, oggi, il loro essere fieramente “a piede franco”, europei dalla radice al fusto non li annovera solo nel limbo della rarità, ma dell’irripetibilità “dotati di quel qualcosa in più frutto di un percorso stabilito unicamente dalla natura senza l’intervento umano” continua Iammarino.
Una qualità così tanto riconosciuta che in Francia ne hanno fatto addirittura una menzione speciale in etichetta “Vieilles Vignes”, ma l’Italia, però, non è da meno e su terreni vulcanici o su suoli sabbiosi non è difficile incontrarle così in Valle d’Aosta con il Priè blanc o sull’Etna con il Carricante, in Campania col Piedirosso o la Falanghina flegrea, in Sardegna con il Carignano del Sulcis o in Liguria con il Rossese. “Le vigne sviluppano molte più radici che vanno in profondità e fanno acini e grappoli più piccoli rispetto alle loro cugine innestate. La longevità è, poi, un altro segno inconfutabile determinando di conseguenza una qualità migliore e una maggiore concentrazione di profumi”.
La correlazione tra gli abissi marini e le viscere della terra sembra allora trovare una sua collocazione e così nelle Cinque Terre, un’ostrica di Portovenere, coltivata dall’ostricoltore Symphonie, dagli accenti vegetali mescolati a un retrogusto salmastro, trova una perfetta connessione con la Campania nella spumantizzazione di un Caprettone di Casa Setaro.
“Sono allevate in corda, vengono sollevate manualmente così da poter replicare l’effetto maree” dice Daniele Testa ricordando come in questo modo le ostriche siano esposte al sole, al vento e alle intemperie del golfo ligure.
Le acque fredde dell’Atlantico, invece dalle coste di Marennes Oleron arrivano fino alle claires di David Hervé, piccoli bacini di acque dove trovano dimora le sue ostriche Royal, “che hanno tutto il nutrimento di cui hanno bisogno per aumentare la loro carnosità proprio grazie alle basse profondità in cui vivono”. È la tecnica del Trompage, con la quale si sollecita continuamente l’apertura e la chiusura delle conchiglie attraverso un processo di riempimento e svuotamento delle vasche. In questo modo le ostriche diventano cremose e vivono di sapidità vegetale e di sottobosco, fatta di note di fungo e di nocciola dove la distanza con l’oltralpe sembra accorciarsi con un calice di Aliseo bianco 2023 dell’Azienda amalfitana Reale.
Non così distante da Hervé, sulla punta bretone del Finistere, l’ostricaio Yvon Madec, a Aber-Benoît, coltiva, invece, le sue pregiate Prea tar Coum, definite le Romanée-Conti delle acque atlantiche e desiderate dai più grandi chef, da Guy Savoy a Pierre Gagnaire passando per Passard e Alain Ducasse. Sono piatte e consistenti e una volta addentate sprigionano sapori marini e leggermente metallici che inondano il palato in un abbinamento riuscito con una Falanghina 2022 dei Campi Flegrei de La Sibilla.
Il mare aperto dell’Irlanda e il produttore Tua Maraa che, in sopraelevazione, alleva le sue ostriche collocandole in sacche fissate su delle tavole coperte dal flusso delle correnti fredde dell’oceano, vengono proposte ad un calice di Coda di Volpe 2023 di Masseria Frattasi, per trovare poi la massima esaltazione in una preparazione dello chef resident Carlo Verde, nella cottura al ramen dove il quinto senso è sublimato da un calice di Vigna del Vulcano 2021 di Villa Dora.
Si, allora è vero, è proprio la capacità di vedere le cose a determinare quanto un’idea possa rivelarsi vincente.
Titti Casiello
Classe ’84, avvocato. Dopo una formazione all’AIS Milano, è diventata giornalista pubblicista e oggi collabora con alcune riviste e guide di settore.