Dall’antica Babilonia al proibizionismo americano: viaggio tra brindisi fatali e calici traditori

di Emma Pagano

Era una fredda sera del 55 d.C. a Roma, e Britannico, il quattordicenne fratellastro di Nerone, sedeva al suo posto durante l’ennesimo banchetto imperiale. Quando gli venne servito del vino bollente, seguendo l’usanza romana chiese che fosse diluito con acqua fredda. Al primo sorso, il suo corpo si irrigidì. Poi, racconta Tacito, “perse voce e respiro simultaneamente”. La corte imperiale osservò la scena, paralizzata, mentre il giovane principe si accasciava sul triclinio. Nerone, invece, non batté ciglio: adagiato sul suo divano, commentò che si trattava solo di uno dei soliti attacchi di epilessia di cui il fratello soffriva. Ma tutti sapevano – anche se nessuno osò dirlo – che quell’acqua “fredda” era in realtà il veicolo perfetto per un veleno fulminante.

Il vino avvelenato: difficile immaginare un’arma più insidiosa, un tradimento più intimo. Eppure, per secoli, proprio il nettare di Bacco è stato il complice silenzioso di innumerevoli omicidi. “Il trucco è facilmente realizzabile mescolando il veleno con il vino,” scriveva nel 1198 Maimonide al Sultano Saladino, in quello che potremmo definire uno dei primi manuali di sicurezza personale della storia, “poiché quest’ultimo di regola copre l’aspetto, il gusto e l’odore del veleno, accelerandone il percorso verso il cuore.”

Un calice levato al cielo in segno di vittoria, ma che, appena poggiato sulle labbra, diventa un biglietto di sola andata verso l’oblio: correva l’anno 323 a.C. quando Alessandro Magno, l’uomo che aveva osato conquistare il mondo, cadde proprio sotto il peso del suo ultimo brindisi. Babilonia era rovente e la sala dei banchetti nel palazzo di Nabucodonosor II rimbombava dei brindisi ad un re ancora giovane ma ormai stremato dalle imprese. Dopo l’ennesima coppa, Alessandro si accasciò, il suo corpo possente tradito da febbri e dolori violenti. La leggenda racconta che fu trasportato a braccia dai suoi soldati fino ai giardini, lungo le rive dell’Eufrate, dove i mormorii già cominciavano a crescere. Alessandro era morto? La folla dei suoi uomini, inquieta, venne ammessa alla sua stanza: nella penombra, videro il re sollevare appena la testa, gli occhi che cercavano di mettere a fuoco un mondo che si andava spegnendo. Dodici giorni dopo, la notte del 10 giugno, all’età di soli 32 anni, il grande condottiero moriva, dicono, avvelenato. Un sorso letale di vino misto a elleboro, forse, o semplicemente l’ultima fiamma di un corpo consumato dagli eccessi.

La leggenda della sua fine per avvelenamento ha attraversato i secoli. Celebrato come un dio in forma umana, Alessandro aveva coltivato un’abitudine eroica al vino, una dipendenza che oggi potremmo considerare alcolismo. Sprezzante delle consuetudini greche, era solito bere coppe di vino puro, senza acqua a stemperarne la potenza. Sebbene fu allievo di Aristotele, autore di un trattato “Sull’ubriachezza” ormai perduto, qualunque consiglio di moderazione delfica che il filosofo gli avesse mai impartito, Alessandro lo ignorò totalmente. Così, la sua morte restò sospesa tra leggenda e mito, offuscata dal mistero e dal bagliore di un’ultima coppa alzata contro il cielo babilonese.

Non sarebbe stata certo l’ultima volta che un brindisi si trasformava in un epitaffio, e nemmeno i luoghi sacri erano immuni da questa pratica letale. Nel 1087, Papa Vittore III morì, si dice, avvelenato attraverso il calice dell’Eucaristia durante una messa – un sacrilegio che rendeva il vino non più sangue di Cristo ma strumento di morte. Secoli dopo, nel 1216, persino Re Giovanni d’Inghilterra, secondo le cronache dell’epoca, trovò la morte in un monastero dove alcuni monaci gli servirono vino contaminato con veleno estratto da rospi – anche se gli storici oggi propendono per una più prosaica dissenteria.

Indubbiamente, la morte più spettacolare legata al vino è quella di Giorgio Plantageneto, primo duca di Clarence, nel febbraio del 1478. Il fratello minore del re Edoardo IV fu giustiziato nella Torre di Londra per tradimento, e la storia apocrifa narra che gli fu concesso di scegliere il suo metodo di esecuzione. Si dice che fu annegato a testa in giù in una botte di malvasia dolce, un atroce spreco di Madeira, ma un mezzo che evitava la dispersione di sangue reale. Sebbene non sia stato lui a originare questa storia, Shakespeare la riprende nel Riccardo III, raccontando che l’annegamento avvenne solo dopo che Giorgio era stato pugnalato. Tuttavia, quando il suo corpo fu riesumato poco tempo dopo l’esecuzione, fu trovato intatto e senza ferite. Tra le molte abbelliture pittoresche della storia inglese, questa potrebbe anche essere vera.

Eppure, nessuno come i Borgia perfezionò l’arte del calice letale, vestendola di quella maestria italiana che tanti ci invidiano. Lucrezia Borgia portava al dito un anello dal design ingegnoso: una cavità nascosta, perfetta per contenere un veleno che, con una mossa segreta, si poteva mescolare al vino del malcapitato di turno. Suo fratello Cesare non era da meno: nella sua dimora, si dice, aveva due botti di vino sempre pronte — una normale per sé e una avvelenata per gli “ospiti” indesiderati. Il loro nome divenne sinonimo di sospetto, un sussurro a denti stretti tra chi non sapeva se alzare il calice o lasciarlo intatto.

Ne sapeva qualcosa anche Gaspar de Guzmán, potente ministro della Spagna del XVI secolo. Durante una cena a Valencia, dopo il primo sorso di vino, balzò dalla sedia in preda al panico, convinto di essere stato avvelenato. Solo quando il suo coppiere bevve dalla stessa bottiglia per dimostrargli che il sapore strano era dovuto a residui di aceto, il ministro si calmò. Ma non tutti erano così fortunati da poter contare su un assaggiatore fedele.

Il veleno però non era esclusiva dell’Occidente. In Cina, il rituale del “dono della morte” (赐死, cìsǐ) era riservato ai dignitari caduti in disgrazia. L’imperatore concedeva loro un ultimo brindisi, una coppa in cui il vino si univa al veleno estratto dalla cresta di una gru o dalle piume dell’uccello zhen, simbolo di rispetto e condanna. Un addio silenzioso e, per certi versi, un segno di grazia per chi aveva fallito.

A Palermo, nel XVII secolo, Giulia Tofana trasformò quest’arte in un business. Aveva inventato un veleno noto come “Acqua Tofana” e lo vendeva in piccole bottiglie decorate con l’immagine di San Nicola, un oscuro richiamo alla redenzione per i peccatori. Le sue clienti erano mogli infelici, prigioniere di matrimoni violenti e senza via d’uscita: qualche goccia dell’Acqua nel vino del marito, e in pochi giorni una vedovanza insospettabile avrebbe risolto ogni problema. Tanto fu celebre questo veleno che, sul letto di morte, Mozart confessò alla moglie di temere d’esserne stato vittima.

Il vino tossico assunse toni surreali durante il Proibizionismo americano. La notte di Natale del 1926, a New York, un uomo si presentò al Bellevue Hospital urlando che Babbo Natale lo stava inseguendo con una mazza da baseball. Era in preda a un’allucinazione feroce, ma non di sua volontà: era stato avvelenato dall’alcol adulterato, reso tossico dal governo federale per scoraggiare il consumo illegale. Nei giorni successivi, decine di persone caddero vittime di questo bizzarro atto di “giustizia”, mentre la paura aleggiava come una nebbia nera sopra le strade della città.

Persino in guerra, dove non mancano armi assai più esplosive, non sono mancati episodi di avvelenamento enoico. L’ultimo brindisi di questa storia si consuma nelle cantine di Krems, Austria, negli ultimi giorni della Seconda Guerra Mondiale. I soldati dell’Armata Rossa, sentendo ormai vicina la vittoria, si riversarono nelle cantine storiche, alla ricerca di botti da svuotare in nome della fine imminente. Ma qualcuno aveva contaminato il vino con metanolo, la trappola finale in una guerra che non risparmiava neanche l’ebbrezza della vittoria. L’ultima vendetta fu servita, senza grida né spari, in un calice di veleno.

Così, oggi, quando ci troviamo di fronte a un bicchiere di rosso intenso, non dimentichiamo che quel sorso, per lungo tempo, ha significato molto più di una semplice degustazione. Per qualcuno è stato un ponte tra passato e presente, tra passione e tradimento. Un confine, sottile come il cristallo del calice, tra la vita e la morte.

Emma Pagano

Emma Pagano, italo-americana, pratica l’amore per le parole in due lingue, tra comunicazione, traduzione e organizzazione di eventi culturali. Responsabile della Comunicazione di MWW Group, coordina il progetto Vendemmie assieme al team.

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