SOMMARIO
di Titti Casiello
Kain na tayo? Andiamo a mangiare? È una frase che si sente molto spesso tra le strade filippine, che sia urlata nel cuore di Chinatown a Manila o nella più sconosciuta isola delle oltre 7600 che compongono questo Stato dell’estremo orientale: molto del senso del vivere filippino è qui.
Un invito a condividere che è anche il loro saluto di benvenuto e che riflette l’ospitalità e il calore di questo popolo, sempre sorridente. E allora che piova, che ci sia il sole, un tifone improvviso o una tempesta tropicale, Kain na tayo?
Con il cibo che diventa linguaggio universale in una terra che conta ben 165 lingue diverse (anche se quasi tutti parlano inglese), tutte unite dallo spirito del “pulutan”, parola con cui si indica la tradizione di condividere cibi e bevande con gli amici.
Più siamo e meglio è, tradotto allora all’italiana maniera, con i figli che diventano una benedizione e non importa se le condizioni economiche e igieniche a malapena lo consentirebbero: ci si concentra sul “qui, adesso” piuttosto che sulle elucubrazioni occidentali. Così si compartisce tra banchetti improvvisati agli angoli delle strade o fuori dalle abitazioni, altrettanto improvvisate, spesso rette solo da quattro pilastri di legno e una lamina di acciaio come tetto.
È tutto un andirivieni di profumi e cattivi odori, in un circolo continuo che dall’alba al tramonto unisce i sentori dell’adobo – il piatto nazionale a base di stufato di guance, orecchie e code di maiale cotte in aceto e aglio – o del sinigang – zuppa aromatizzata al tamarindo con carne o, in alternativa, col pesce -, sempre accompagnato dall’immancabile ciotola di riso bollito e talvolta dal natong, una verdura a foglia verde sminuzzata.
Ma è anche un pullulare di ristoranti o di turu-turò, letteralmente punto-punto, semplici locali dove in genere gli abitanti consumano pasti veloci principalmente a pranzo.
Non stupitevi per i tovaglioli che troverete ai tavoli, dalle dimensioni di un kleenex e con un unico velo. La ragione, a dir la verità, resta ignota. Né per i tempi di attesa dove il nostro “ora vediamo” lì si traduce con un sorriso e un tempo indefinito, che dai 15 minuti può arrivare a un’ora.
Relax and take it easy allora, sarà il giusto tempo per provare a decifrare un menù a base di sisig (bocconcini di carne alla griglia), di lumpia (involtini primavera ripieni di carne o verdure), o del delizioso kinilaw una ceviche marinata al kalamansi (piccolo lime aromatico) e condita con zenzero, cipolla, peperoncini infuocati e suka (aceto).
Qualsiasi piatto potrà essere al ginataàn, cioè cotto nel latte di cocco, mentre c’è da prestare attenzione se è, invece, al maanghang, potrebbe essere molto piccante.
Il dolce sarà necessariamente un Halo-haolo, un dessert spesso al mango fatto con riso e insaporito con frutta e latte. Si utilizza il Mascobado, uno zucchero integrale estratto dalla canna che viene prodotto senza particolari artifizi, mantenendo così integri tutti i suoi principi nutritivi.
E forse per il Mascobabo sono ancora quelle stesse piantagioni che nel 2011 fecero innamorare l’inglese Stephen Carroll con un colpo di fulmine per la Hacienda Sta Rosalia, nella zona Negros Occidentale. A partire da quell’anno tutto lo zucchero di canna dell’azienda fu destinato a fornire la melassa usata per la distillazione di quello che è diventato, poi, il rum più famoso delle Filippine, il Don Papa.
Il nome viene da un mitico rivoluzionario filippino Papa Isio, considerato uno sciamano, una vera e propria guida spirituale per il popolo filippino impegnato nella guerra di liberazione dalla dominazione spagnola.
E se per la distillazione il senso identitario appare ancora oggi fortemente segnato, per quanto vivace sia la gastronomia filippina si fa, però, un po’ fatica a trovare una vera e propria tradizionale con quei pochi scampoli che ne rimangono: sembrano via via soppiantati dietro l’angolo da un Jollibee o un McDonald’s sempre aperti che diventano “salva cena” dei tanti turisti, ma spesso anche dei tanti indigeni.
La cucina e le sue tradizioni, in fondo, non fanno che riflettere la storia di un Paese e quella coloniale delle Filippine può essere riassunta tutta nel detto ironico locale “300 anni in convento, 50 anni ad Hollywood”, sintesi coincisa della dominazione spagnola dal 1555 per 300 anni e poi dagli americani dal 1899 per i 50 seguenti. E se l’influenza della prima la si ritrova nella lingua e nei nomi, per tutti gli altri aspetti come la musica, l’agricoltura la contaminazione è senza dubbio a stelle e strisce, finendo di mancare di una vera identità.
Oggi, però, una nuova generazione di chef si fa avanti guidando una cucina che diventa innesto tra retaggi della tradizione e fusioni con sapori internazionali.
I ristoranti (e i luoghi da non perdere) a Bohol, Siargao, Palawan, Boracay e Manila
Bohol
Nuotare tra gli squali balena e ammirare tartarughe marine tra le acque protette della barriera corallina è il modo migliore per iniziare un viaggio nelle Filippine. Eppure, anche solo un semplice giro in scooter, dove vale più il viaggio che la meta, può rendere l’idea della potenza della natura qui a Bohol: la biodiversità che si scopre tra le fitte foreste che sovrastano il mare, i fiumi sotterranei e le distese sterminate di coltivazioni di riso, per arrivare, poi, alle Chocolate Hills uno dei più rinomati monumenti geologici dell’isola, con una formazione di oltre 1260 colline la cui vista dall’alto ricorda tanti piccoli bon-bon di cioccolato.
Il ristorante: Bamboo Place
Situato al centro di Alona, cuore notturno della movida isolana, qui oltre a servire ottimi piatti di pesce si trovano anche i migliori drink della città e un’ottima selezione musicale.
Siargao
Rinominata la piccola Bali con quell’aria distesa scandita dal lento fare della vita dei surfisti e dei nomadi digitali che in questa perla delle Filippine hanno trovato il luogo ideale dove stanziarsi.
Il ritmo pigro di una Banka (la tipica imbarcazione filippina) è il mezzo perfetto per godere della vista delle Mangrovie Forest in un ozioso percorso sul fiume sino a giungere a Sugba Lagoon dove un salto da un traballante trampolino situato a circa 5 metri e un po’ di snorkelling diventano d’obbligo.
Al rientro, lungo le rive, venditori urlanti intenti a vendere imbao (vongole) appena pescate nel fiume o fumanti sagaing (spiedini di banane fritte cosparse con zucchero di canna).
Mentre sono Naked island, in tour con i due isolotti di Daku e Guyam, che diventano ristoro della mente e del corpo con tanto di pranzo servito direttamente sulla spiaggia.
I Ristoranti: Harana Surf Resort Restaurant e Wild Siargao
Il primo offre un viaggio culinario attraverso i sapori delle Filippine fondendo i principi della cucina moderna con i piatti regionali della regione del Mindanao, il tutto con una splendida vista lungo le acque oceaniche che delimitano la sala, ma non da meno è la commistione di sapori tra antico e moderno offerta da Wild Siargao imperdibili i bao cinesi che incontrano la cultura gastronomica filippina nelle farciture.
Palawan
Port Barton è un angolo remoto di paradiso e Prince John è un meraviglioso resort con caratteristiche capanne costruite in mezzo alla foresta. Elettricità limitata, scarsa connessione, per lunghi momenti con sé stessi e a contatto con la natura.
Lasciarlo alle spalle è difficile, ma non se a Sabang, una settantina di km da Puerto Princesa, si visita il Subterranean River National Park, patrimonio dell’umanità dell’Unesco, dove vivono oltre 800 specie vegetali e diverse specie animali.
Vale la fatica, tanto quanto anche noleggiare un van stipato dove dopo oltre quattro ore di viaggio, non propriamente comodo, si arriva alla gettona El nido, al nord dell’isola. Qui è d’obbligo un’escursione a Bacuit Bay tra frastagliate formazioni calcaree e acque cristalline che cantano all’unisono alla bellezza naturale. I tour sono stabiliti dall’amministrazione dell’isola e sono quattro: a, b, c e d. La A è incredibile tra le soffici spiagge di 7 commandos beach, lo snorkeling tra razze e tartarughe delle Twin Rocks e lo spettacolo di biodiversità che si ammira in canoa nella Secret Lagoon.
Il ristorante: Big Bad Thai Restaurant – El Nido
Il locale è distribuito su più piani ed è abbastanza caotico, ma offre un autentico e delizioso cibo tailandese.
Boracay
Con quasi due milioni di visitatori all’anno, quest’isola occidentale tutta avviluppata tra foreste, spiagge paradisiache e lunghi tratti di barriera corallina è imperdibile per delle giornate di autentico relax. L’impalpabile sabbia bianca della lunghissima White Beach diventa incantevole soprattutto quando il sole tramonta e il disordinato andirivieni di bagnanti si placa, mentre è a Puka Beach e a Ilig Iligan Beach che la vista si illuminerà in un’infinita distesa di acqua cristallina.
Il ristorante: Smooth Cafe & Lounge Boracay
Un piacevole risto-bar per una cucina informale direttamente sulla spiaggia, mentre il rooftop diventa perfetto per una serata danzante al chiaro di luna.
Manila
Scarnita dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, l’energica capitale dalla vita diurna e notturna frenetica trasmette anche un’innegabile vivacità culinaria.
Quel che resta del passato della città è tutto racchiuso ad Intramuros, le mura coloniali costruite durante la dominazione spagnola al cui interno si trova la chiesa più antica delle Filippine che ha resistito a sette forti terremoti, è San Augustin Church.
Caotico, maleodorante, ma assolutamente da visitare è Chinatown, un turbinio di cibo da strada, wet market e attività commerciali, il tutto ad un’alta densità di turisti e local che affollano le pittoresche strade.
Poblacion è, invece, il distretto trendy del quartiere residenziale di Makati, è qui che tra vivaci murales si nascondono i migliori cocktail bar della città.
I ristoranti: Vege Select (Chinatown) e Gallery by Chele (Poblacion)
Il primo è un turu-turù che serve tofu alla griglia e dim sum arrostiti tutto rigorosamente veggie, passando poi al fine dining filippino-spagnolo proposto dallo Chef Chele Gonzalez dove ricerca delle materie prime ed estro culinario sono le sue skills principali. Il tutto in un ambiente raffinato e dal servizio eccellente.
I Cocktail bar: Spirit Library e Back roomp
Inserito nei 50 best bars asiatici, il Back roomp è nascosto da qualche parte lungo la 30th Street, un secret bar che ritorna agli anni ‘20 tra signature cocktail e una ricerca smodata di distillati e liquori, ma gioca ad armi pari anche lo Spirit Library che, dopo aver suonato il campanello, già all’ingresso della deliziosa porticina impone il naso all’insù grazie ad una libreria, con tanto di scala a chiocciola, che porta in un viaggio onirico nell’infinito mondo degli spirits.
Titti Casiello
Classe ’84, avvocato. Dopo una formazione all’AIS Milano, è diventata giornalista pubblicista e oggi collabora con alcune riviste e guide di settore.