Con lo chef Giacomo Orlandi, il patron di Savigno racconta i suoi abbinamenti mai fissi e una carta vini costruita non per tendenza: “Il calo dei consumi? Una costante da 40 anni, ma ora cala anche l’allarmismo”
di Alessandra Meldolesi
Formalmente è una “trattoria”, associata come tale alle Premiate Trattorie Italiane. Eppure agli occhi salta tanto di più. Non è solo questione di stella Michelin, annunciata dai telegrammi di Marchesi e Gaja e ormai accesa da quasi trent’anni, prima che la bussola rossa si orientasse altrove. Chi è ammesso nel desk subito dopo la piccola bottega, non può che notare una sfilza di testi sacri, che spaziano da elBulli al Noma. E i lavori, rileva chi passa dal retro nel cuore di Savigno, fervono in cucina sin dalla prima mattina, nonostante l’apertura sia serale.
Il patron Alberto Bettini, va detto, è arrivato prima di tutti. Se lo stillicidio del downshifting attualmente in corso nei ristoranti stellati può suonare allarmante, lui sin dal principio, con le antenne addestrate dal mondo della moda, ha puntato su un format popolare, implementato con rigore degno del fine dining. L’insegna recita “Amerigo 1934” perché da quasi un secolo i fornelli sono accesi. Il fondatore si chiamava Amerigo Vespucci, in un’epoca in cui Savigno pullulava di visitatori, attirati il martedì dal mercato e la domenica dalla messa. Alberto Bettini è suo nipote, figlio di Giuliana e nipote di Marisa, numi tutelari di un manipolo di sfogline, capeggiate dalla decana Roberta.
Era il 1988 quando è rientrato a casa, infilando in valigia una consapevolezza diversa. E il locale ha preso il volo grazie a intuizioni come l’approvvigionamento locale, perché solo l’aderenza al territorio è garanzia di unicità dell’esperienza. Negli anni Alberto ha così costruito una rete di produttori attivi nel raggio di pochi chilometri, vignaioli compresi, mentre la cucina si ancorava ai classici, senza precludersi qualche scappatella nella creatività con lo zampino del giovane chef Giacomo Orlandi. E gli spazi sono fioriti: se è vero che il bancone in legno e marmo al piano terra è invariato dai tempi di nonno Amerigo, al primo piano è imperdibile la saletta affrescata da Gino Pellegrini, scenografo di Hitchcock e Kubrick, sul tema del ciclo delle stagioni.

Bettini: Mio nonno faceva il vino da qualche vigna in affitto: albana, trebbiano, barbera e sauvignon, poi comprava uve lambrusco nel Modenese. Erano i vini della casa, tutti frizzanti a fermentazione in bottiglia come sta tornando di moda, con le loro etichette, che conservo ancora. E ne faceva 30mila bottiglie, incredibile quanto bevesse un tempo la gente! Ricordo che se le giocavano a carte e ne partiva una a testa. Fin da bambino ero coinvolto in ogni fase, dalla vendemmia alla pigiatura dell’uva, che si svolgeva sotto la finestra della mia cameretta. Cosicché la mattina mi svegliavo con questo odore di mosto, che è uno dei miei primi ricordi e probabilmente ha influenzato le mie scelte. Per conoscere altri vini, però, ho dovuto aspettare di fare il militare in Friuli nel 1980, quando con un paio di commilitoni abbiamo deciso di battere tutti i ristoranti della Guida Espresso. Allora ho capito che c’era un altro modo di fare ristorazione. La mia idea restava quella di iscrivermi ad Architettura, che però era a Firenze, ma è successo che siccome mia madre a tempo perso faceva la magliaia, un giorno il titolare di un negozio di Bologna ha notato la maglia che avevo disegnato e mi ha proposto di lavorare per lui. A stretto giro ho iniziato a seguirlo da Parigi a New York. Ed ero io a prenotare alberghi e ristoranti, cosicché ho frequentato i locali internazionali più alla moda, che conoscevo dalle riviste di lifestyle. Nel frattempo noi mangiavamo e bevevamo. A quel punto ho pensato che anche in Valsamoggia, forse, potesse darsi una ristorazione diversa. I miei volevano chiudere e ho deciso di provarci. I classici sono rimasti: le tagliatelle, i tortellini, la pasta e fagioli, i passatelli, gli arrosti e i bolliti, anche le trote impanate e fritte nell’olio di oliva, risalenti a quando c’era una sorgente, che poi si è seccata. La prima cosa è stata cercare la materia prima locale, perché era comoda, conoscevo le persone da una vita ed era giusto per chi arrivava da fuori. Ma ho subito eliminato quasi tutti i fornitori di mio nonno, che pur essendo contadini del posto, non esprimevano quella sensibilità verso gli animali e i campi che chiedevo, anzi usavano gli stessi mangimi e fertilizzanti dell’industria, per avere prodotti più “belli”. La formazione nella moda mi è stata utile per capire in fretta cosa non dovessi fare, quindi mantenere un’identità forte, raccontare un territorio senza vivere di effimero, come appunto la moda e tanta ristorazione odierna. E il vino è andato di conseguenza. Ho iniziato a cercare di capirci qualcosa, ho frequentato i corsi AIS e per tanti anni ho collaborato con il Gambero Rosso e Slow Food. Il giorno in cui ho aperto nel 1988, c’era già la prima carta dei vini dei Colli Bolognesi, un foglio fotocopiato con una ventina di referenze, che adesso sono centoventi. Ogni tanto arrivava qualcuno da fuori e chiedeva l’altra carta, che però non c’era! E anche adesso, quando la portiamo, chiediamo se l’ospite vuole conoscere i vini del resto d’Italia, che sono altre quattrocento etichette. Ma su questi piatti, con la ricerca che portiamo avanti in cucina, reputo sia più interessante proporre il corrispondente, ovvero il vino di qua, che è anche poco conosciuto, perché è una zona piccola, che ultimamente è passata da 1000 a 650 ettari, meno di molte grandi aziende singole. Sui vini del resto del mondo, che pure mi piace conoscere, non sarò mai preparato come sui miei, di cui posso raccontare tutto. Forse sono il più bravo della serie C, ma non mi interessa classificarmi cinquantesimo nella prima divisione. Poi c’è chi passa a bere Rinaldi e Conterno perché li paga poco, spesso meno che in enoteca.
Orlandi: Io sono arrivato nel 2016, ma ero nell’orbita di Amerigo da quasi un decennio. Dopo il diploma al liceo scientifico e ad Alma, ero subito approdato all’Eataly della mia città, Bologna, dove sono diventato chef. Alberto, che era consulente, mi ha aiutato anche a fare altre esperienze, per esempio ha trovato modo tramite conoscenze di mandarmi dal più “cattivo” di tutti, Piège, dove sono diventato capopartita e mi sono fermato due anni. Poi ho compiuto un passaggio a Tignes, in Savoia, in un cinque stelle che apparteneva a un collega di brigata, oggi stellato. Li è successo che a fine stagione, nel tentativo di ammazzare il tempo in alta quota, mi sono rotto i legamenti del ginocchio giocando a basket. Avevo già nostalgia di casa e la prima persona che ho contattato è stato lui, con cui ero sempre rimasto in contatto. Dopo un anno a Savigno mi ha raggiunto mia moglie Maria, che conoscevo da Parigi ed era passata al Miramonti. Ma Alberto è stato un maestro anche fuori dalla cucina. Sono sempre stato un bevitore semplice, non un cultore, ma lui mi ha folgorato. Per non parlare del servizio e dell’atmosfera in sala.
Bettini: Per me è fondamentale che la ricerca in cantina sia pari a quella sul cibo. Ci tengo a fare cultura del vino, oltre gli abbinamenti tecnici su richiesta. Se un ospite decide di affidarsi, guardo la sua comanda, chiedo i vini preferiti e quelli meno graditi. Poi magari glieli servo, per dimostrare che non esistono luoghi comuni. Ma non c’è un pairing fisso, i miei sono tutti abbinamenti a memoria.
Orlandi: È una fortuna potere affiancare Alberto ogni giorno, acquisendo qualche strumento in più per capire e apprezzare. Ci sono tre occasioni in cui beviamo assieme. Quando arrivano dei campioni facciamo un tavolo di lavoro e letteralmente pendiamo tutti dalle sue labbra. Poi ci sono i nostri giri, quando andiamo a mangiare da qualche parte o ci spostiamo per lavoro, anche all’estero. Se c’è tempo cerchiamo sempre di agganciare un ristorante o una cantina, unendo l’utile al dilettevole.
Bettini: Il nostro però resta un atteggiamento disinvolto, senza supponenza. Il cliente non deve mai avere paura e se il bicchiere non gli piace, lo cambiamo. A fornirmi un modello è stato Fabio Scarpitti di Aimo e Nadia, che frullava fra i tavoli facendo assaggiare di tutto. Poi rispetto chi fa il sommelier in modo scolastico, come nei grandi francesi, che conosco bene. Apprezzo anche un servizio formale, ma è come andare in un museo. Tutto ha senso nel locale giusto. Qualcuno si stupisce che continui a stappare dietro il banco, e non al tavolo, come si è sempre fatto in trattoria. Ma se uno è dubbioso, come potrebbe fidarsi su ciò che ha nel piatto? E io dovrei compiere un gesto, solo perché si è sempre fatto? Sarebbe un luogo comune. Un addetto al servizio mi costerebbe 35mila euro l’anno, su 18mila coperti sarebbero 2 euro in più solo per un esercizio di stile. Ho un foglio apposta per spiegarlo a chi ancora si stupisce. Per quanto riguarda i consumi, il calo è stato costante da quarant’anni a questa parte. Mi sembra che il recente allarmismo tuttavia stia scemando, anche se si vendono più calici che bottiglie: i nostri vini dei Colli Bolognesi sono tutti sbicchierati grazie all’impianto ad argon.

Alessandra Meldolesi
Nata a Perugia, Alessandra Meldolesi dopo gli studi e uno stage alla Comunità Europea ha scelto la cucina, diplomandosi alla scuola Lenôtre di Parigi e lavorando brevemente come cuoca presso ristoranti stellati. È sommelier, autrice di numerosi libri, traduttrice e giornalista specializzata da oltre vent’anni.