Più che crack finanziario, è la mancanza di strategie e pianificazione che manda al collasso azienda dopo azienda: è il tentativo di sostituire il contadino con banche e robot
di Paolo Caruso
Questi sono i nomi di alcune delle più grandi aziende che si occupavano di agricoltura verticale ad essere recentemente fallite o in fase di ristrutturazione:
PodPonicsFarmedHereAeroFarms (in ristrutturazione)GrowUp Urban FarmsPlantagonInfinite HarvestSky GreensAgricoolLocal Garden VancouverAquaHarvestGreen Spirit Farms
Il settore delle vertical farming ha palesato dal 2022 in poi una insostenibilità economica su cui pochi avrebbero scommesso e che continua ad instillare più di un dubbio circa nuovi investimenti e/o ristrutturazioni del modello di business di aziende già esistenti.
Sono numerosi i motivi che hanno impedito a queste realtà di mantenersi competitive in un mercato, quale quello agricolo, che si regge ancora su guerre continue per abbassare i prezzi di vendita che invece rappresentano, insieme agli eccessivi costi di produzione, il vero vulnus della vertical farming. Il dato sostanziale che accomuna la crisi di queste aziende è rappresentato, a detta di molti analisti, dalla eccessiva concettualizzazione e informatizzazione dei progetti, realizzati e portati avanti da soggetti che passano la maggior parte del loro tempo a scrivere piani aziendali, raccogliere fondi e condurre valutazioni finanziarie, ma che probabilmente sono incapaci di prevedere e capire le diverse dinamiche della filiera agricola.
La maggior parte dei progetti di agricoltura verticale ad alto investimento, vengono sviluppati da aziende che desiderano diversificare, da imprenditori che cambiano carriera o da banche d’investimento, insomma gente che la campagna la vede solo per Pasquetta.
Soggetti che non hanno saputo prevede che il punto di forza di queste aziende, ovvero l’automazione spinta, si è rivelata un clamoroso boomerang. Sistemi di produzione completamente automatizzati (controllo di temperatura, umidità, livelli di CO2 e circolazione dell’aria) prevedono l’adozione di tecnologie molto avanzate, che richiedono per il loro funzionamento professionalità in grado di lavorare con l’ITC, con un livello di compensi certamente superiore ad agronomi e contadini.
Dalla semina delle piantine alla raccolta, sono stati costruiti robot multimilionari per sostituire, spesso immotivatamente, il personale umano. Le risorse finanziarie impiegate per progettare software e robot specifici difficilmente possono essere recuperate vendendo prodotti a basso valore aggiunto come quelli agricoli.
Spesso la portata dell’investimento era assolutamente sovradimensionata e non in linea con uno sviluppo proporzionato alla crescita del mercato di riferimento. Inoltre per far funzionare tutta questa tecnologia occorrono input energetici molto elevati, spesso non supportati da fonti di energia rinnovabile.
Tutte queste criticità si inseriscono nel processo di formazione dei prezzi di vendita, che spesso sono significativamente superiori a quelli dei prodotti realizzati con l’agricoltura tradizionale e non mi risulta, ma potrebbe esse un mio limite, che ci sia una platea di consumatori disposta ad accollarsi un premium price per acquistare lattughe ottenute con il vertical farming.
Per quanto la sperimentazione di nuove metodologie di produzione del cibo, a fronte del limite imposto dalle risorse naturali disponibili e dall’aumento demografico planetario, sia ineluttabile, occorre una riconsiderazione della sostituzione dell’uomo e della natura nel processo di produzione alimentare.
Non si sostituisce (almeno per adesso) il contadino con banchieri e robot, ed il bello è che sono i numeri a confermarlo: una nemesi perfetta.
Paolo Caruso
Creatore del progetto di comunicazione “Foodiverso” (Instagram, LinkedIn, Facebook), Paolo Caruso è agronomo, consulente per il “Dipartimento di Agricoltura, Alimentazione e Ambiente” dell’Università di Catania e consulente di numerose aziende agroalimentari. È considerato uno dei maggiori esperti di agrobiodiversità