Vino e succhi non sono distanti nell’idea della giovane sarda al Geranium di Copenaghen: “Mi ispiro agli stessi principi che seguirebbe un sommelier, le bevande possono convivere. L’uscita del libro l’ho festeggiata con uno champagne”
di Nello Gatti
Giulia Caffiero, originaria di Cagliari e attualmente in forze al Geranium di Copenhagen, è una figura di spicco nel panorama gastronomico internazionale che ha dedicato la sua carriera all’arte dell’ospitalità e all’innovazione culinaria. La sua passione per l’abbinamento analcolico dei succhi ai piatti, noto come “juice pairing”, l’ha portata a pubblicare il libro “Juice Pairing. Tecniche per la preparazione di succhi e abbinamenti naturali a tavola”, un manuale completo che esplora questa nuova frontiera gastronomica. Quali saranno i feedback ricevuti e c’è la possibilità di aprirsi a questi pairing analcolici anche in Italia? Chiediamolo direttamente a lei.
In Italia si è creato il panico da quando è entrato in vigore il nuovo codice della strada che è percepita come un’ulteriore stretta sul consumo di vino e in generale alcolici. Ma da tempo tu lanci la sfida con i succhi naturali. Siamo pronti a rinunciare a un calice di vino per un succo? O siamo ancora un po’ troppo legati all’idea che al ristorante solo il vino può accompagnare l’esperienza?
Il “juice pairing”, come avrai già letto più volte, nasce principalmente da un’esigenza: quella di rendere l’esperienza gastronomica memorabile anche per chi non beve vino. Come spesso accade, ciò che nasce come esigenza si trasforma in curiosità, ed è proprio questa curiosità che sta alimentando l’interesse crescente, con sempre più persone che vogliono scoprire di cosa si tratta. Di conseguenza, il consumo di succhi abbinati al cibo sta aumentando esponenzialmente.
Non posso dire con certezza se il panorama italiano sia pronto ad accettare una sostituzione, d’altronde, perché dovrebbe farlo? In un mondo dove vino e succhi possono coesistere, perché non accettare la loro convivenza? Non nego che la risposta italiana a ciò che faccio è davvero positiva, soprattutto da parte dei cuochi, con i quali mi confronto spesso.

Sappiamo che la ristorazione in Italia è un mix di regionalità e tendenze globali, eppure sembra che si stia facendo fatica ad adattarsi ai cambiamenti nei consumi, soprattutto per quanto riguarda il vino. Parliamo della Danimarca, dove le alternative al vino sono quasi un must. Ti sembra che ci sia un divario tra i trend nordici e l’Italia, dove il vino è ancora un pilastro? È davvero possibile per l’Italia aprirsi al “juice pairing” con la stessa forza con cui i danesi abbracciano nuove bevande?
È sicuramente più facile trovare terreno fertile nel Nord Europa, dove le tradizioni non sono così radicate come in Italia. Il Nord Europa è in continuo movimento e cambiamento, come testimonia il Manifesto della Cucina Nordica del 2004 (parliamo di soli 21 anni fa), quando furono definiti i canoni della cucina nordica: purezza, stagionalità, etica, sostenibilità e qualità. Da allora, tutto è stato esplorato, sempre nel massimo rispetto della natura. In Italia, cerchiamo di fare lo stesso, anzi, azzarderei dire che certi concetti sono quasi sottintesi nel nostro quotidiano, anche se la nostra cultura culinaria è profondamente radicata in ognuno di noi. Le nostre tradizioni sono scolpite nella roccia e, spesso, è difficile affrontare cambiamenti radicali dall’oggi al domani. È per questo che li accogliamo con più lentezza, valutando se siano adattabili alla nostra cultura e al nostro modo di pensare. Credo, però, che negli ultimi anni ci sia stata una maggiore apertura mentale, soprattutto verso i fermentati. Con il tempo, quindi, saremo sempre più pronti a integrare i non alcolici elaborati a tavola, che, come ho detto, possono coesistere con un bel bicchiere di vino, di cui, personalmente, raramente faccio a meno.
Essendo un concetto relativamente nuovo, il pubblico è curioso di parlarne e provarlo. Molti non capiscono pienamente il prodotto finché non lo assaggiano, e grazie a questo posso vedere l’effetto che fa sui loro occhi. Si apre un nuovo universo di percezione nelle loro menti. Per questo, direi che non è difficile spiegare ciò che faccio e far comprendere il concetto.
Quanto è difficile far passare il messaggio che i succhi naturali, preparati artigianalmente, possono dare la stessa profondità e complessità di un vino?
Non sono solita paragonare vino e succhi di frutta, perché sono due cose ben diverse. Abbiamo studiato a lungo per creare abbinamenti con il vino, che è ovviamente più complesso ma anche molto più naturale (nella nostra cultura, tutte le scuole specializzate ci insegnano e ci guidano passo dopo passo). L’abbinamento cibo-vino è quasi automatico per noi, essendo noi stessi produttori di vino. Al contrario, con i succhi di frutta e verdura, la reazione è più lenta, poiché non abbiamo mai studiato formalmente questo tipo di abbinamento in una scuola. Solo da qualche tempo si comincia a parlarne, e il mio libro, che è il primo manuale a trattare questo argomento, è un passo in quella direzione. Nella mia mente, comunque, l’abbinamento con i succhi è più semplice, perché stai abbinando un cibo solido a uno liquido, creandolo e producendo tu stesso il prodotto, talvolta riportando un elemento presente nel piatto anche nel bicchiere. Sarei poco onesta se non dicessi che utilizzo gli stessi criteri di abbinamento che impiegherei per il vino: ricerco acidità, salinità, talvolta fruttato o vegetale, persistenza, a volte dolcezza. Sono tutti elementi che conosciamo bene nel mondo degli abbinamenti.

Da un lato, la salute e la sostenibilità sono ormai tendenze che non si possono ignorare. Dall’altro, il cliente non vuole rinunciare al “piacere”. Come affronti questa dicotomia?
Per me, le parole “sostenibilità” e “piacere” non sono per niente in contrasto. L’esagerazione è dannosa in ogni campo. Il consumo di un calice di vino, ad esempio, non deve per forza creare malessere, può portare gioia così come può farlo un buon succo per chi non gradisce l’alcol. Quello che vorrei che venisse percepito è che l’uno non esclude l’altro: si può bere un buon calice di vino a pasto e allo stesso modo consumare un buon calice di succo derivante da prodotti freschi e biologici.
Il tuo libro, “Juice Pairing”, che tipo di pubblico incontra e da quale esigenza nasce?
Ho scritto un libro che racconta quello che faccio, con 50 ricette semplici da seguire, in modo che tutti possano avvicinarsi a questo mondo. In questo modo, chiunque può essere in grado di produrre bevande non alcoliche anche a casa. È un libro diretto a tutti. Sto riscontrando molta gratitudine da parte della ristorazione e questo ovviamente mi riempie di gioia perché significa che, come ci credo io, anche molti altri ci credono.
La necessità di avere opzioni non alcoliche al ristorante nasce, per me, da un “concetto romantico” legato al mio ruolo di donna di sala. Tutti i clienti devono essere trattati con la stessa importanza e attenzione. Per me non è concepibile un mondo dove il cliente che spende di più riceve più attenzioni dalla sala, o dove il cliente che ordina tanto vino è considerato migliore di quello astemio. Questo tipo di differenziazione umana non può esistere nella parola “ospitalità”. L’empatia e la dolcezza devono, e ripeto devono, far parte del lavoro di un cameriere o di una cameriera.
Ti sarà sicuramente capitato di sfogliare le pagine del tuo libro in compagnia di un calice di vino. Quale?
Credo che il mio libro, come ogni altra lettura, possa essere accompagnato da qualunque bevanda, senza alcun giudizio a riguardo. Non ho un vino particolare che consiglio per accompagnare la lettura, ma voglio condividere con voi la bottiglia che ho aperto quando è uscito, ovvero lo Champagne Selosse Blanc de Blancs Initial.

Nello Gatti
Vendemmia tardiva 1989, poliglotta, una laurea in Economia e Management tra Salerno e Vienna, una penna sempre pronta a scrivere ed un calice mezzo tra mille viaggi, soggiorni ed esperienze all’estero. Insolito blend di Lacryma Christi nato in DOCG irpina e cresciuto nella Lambrusco Valley, tutto il resto è una WINE FICTION.